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Breaking the waves

Dic 28, 2023

Introduzione alla pubblicazione italiana

La versione originale del testo è consultabile su IllWill al link https://illwill.com/breaking-the-waves

Il testo è stato scritto a maggio del 2023 e presenta alcune analisi interne del ciclo di lotte che ha segnato di recente Stati Uniti e Francia.

Non si tratta di un bilancio, né tantomeno di un insieme di indicazioni prescrittive, si tratta di un tentativo di ragionare sulle strategie dei movimenti e dei limiti che incontrano.

Si potrebbero considerare le condizioni storiche come ostacoli inaggirabili che conducono alla inesorabile declino dei movimenti, oppure, si potrebbe affermare che la sconfitta è già inscritta nella composizione sociologica di classe di chi si mobilita. Il problema invece è strategico, ossia di saper cogliere nei conflitti quelle tendenze che le conducono su delle ‘impasse’ già annunciate, per provare piuttosto ad esplorare delle ipotesi alternative. Una ‘strategia della composizione’ con le forze politiche esistenti raggiunge rapidamente dei limiti di allargamento, e una volta satura, ripiega conseguentemente su dinamiche politiche classiche: il consenso nei confronti dell’istanza della lotta può essere facilmente capitalizzato dalle forze elettorali, mentre vengono represse le parti che si sono fatte portatrici di quelle spinte non ritenute legittime all’interno di un quadro “legale”.

Il recente ciclo di lotte in Francia pone delle questioni rispetto a quali rapporti intrattenere con le forze della sinistra: ad esempio su come l’essere rimasti dentro l’orizzonte strategico del sindacato, senza averne saputo avanzare uno autonomo, abbia condotto il movimento contro la riforma delle pensioni ad una sconfitta insindacabile. Dall’altra parte cavalcare delle istanze ecologiste di grande consenso può consentire di ottenere una maggior legittimazione pubblica e diffondere forme di azione come il sabotaggio, ma dopo una prima fase si scivola facilmente in meccanismi di recupero elettorale e repressione.

Gli interventi dei gruppi autonomi o radicali che provano a porsi alla testa dei movimenti per spostare l’asse politico della sinistra istituzionale ha degli evidenti limiti strategici se non riesce a far saltare le rappresentazioni politiche classiche, venendone sostanzialmente catturati.

I gilet gialli avevano già mostrato in maniera evidente che il neoliberismo democratico non esiste, che non vi sono grandi spazi di mediazione e che l’unico modo per invertire la polarizzazione reazionaria che sta investendo tutto l’Occidente non è un largo fronte di sinistra, ma un movimento popolare capace di disarticolare le rappresentazioni politiche. Fare tesoro dell’esperienza dei gilet gialli significa allora non ragionare in termini di alleanze scontate, per andare alla ricerca di ‘composizioni’ opache e imprevedibili. Le occasioni non mancano e non sono mancate anche in Italia: sono numerose le opposizioni popolari contro opere che vengono giustificate come parte di una transizione verde (in ambiti urbani come rurali), ma anche sono state numerose le opposizioni contro tecnologie di controllo come si è potuto intravvedere a Trieste nella protesta contro il greenpass.

In un contesto come quello italiano, dove gli appelli alla convergenza sono innumerevoli, forse una progettualità politica nuova potrebbe nascere dall’abbandono delle identità politiche preesistenti per immergersi nei processi di mescolanza che caratterizzano le forme spurie che assumono i conflitti contemporanei. Far cadere i giudizi e i pregiudizi e provare ad indagare a fondo, anche organizzandosi, quelle forme apparentemente contorte che sono frutto di composizioni impreviste.

La proposta, allora, è quella di affrontare la lettura di questo testo come un tentativo di indagine, da riprendere, approfondire e risituare, verso una nuova politica dei luoghi, in una traiettoria destituente, che sappia comporre, ma anche separare.

Agosto 2023


Composizione

In un recente testo Temps critiques1 riflette su come la composizione intergenerazionale che era mancata nei gilet gialli è presente nel nuovo movimento in gestazione contro la riforma delle pensioni. Il testo descrive un alliage2 di circostanza, frutto della fusione temporanea di diversi frammenti sociali: categoria che richiama quella che endnotes definisce “composizione” rispetto ai movimenti recenti.3 Giovani di ogni tipo hanno dato una nuova spinta al movimento, provocando una forte impennata dei cortège de tête e delle pratiche di rivolta (scontri con la polizia e distruzione di vetrine o arredamento urbano) facendo perdere ai sindacati il controllo delle piazze.4 Allo stesso tempo hanno ridefinito il ruolo delle occupazioni di scuole e università, trasformandole in basi organizzative delle azioni in giro per le città, dotandole quindi di un significato diverso rispetto ai movimenti passati in cui l’occupazione era una forma di riappropriazione delle istituzioni educative.

Gli studenti hanno quindi rielaborato una pratica classica del loro repertorio in una forma nuova, capace di comporsi con il resto del movimento contro la riforma delle pensioni. Si tratta quindi di un alliage/composizione che avviene in opposizione ad un “potere” che assume le sembianze di Macron, dello Stato, ma anche quello decentralizzato dell’economia. La forma conflittuale che la mobilitazione ha assunto nel mese di marzo in Francia, decentralizzata e volta a privilegiare azioni dirette e blocchi, è legata alla configurazione compositiva delle varie soggettività coinvolte al loro interno, e in rapporto alle mosse di Macron, in particolare in reazione al suo colpo di mano che ha messo fuorigioco tutte le sue opposizioni istituzionali (sindacati e partiti), lasciando come unica possibilità un’opposizione diretta e priva di mediazioni. È qui, quindi, che i giovani e tutte quelle componenti più “radicali” del movimento hanno trovato lo spazio di dare una scossa alla mobilitazione assegnando maggior centralità ad un repertorio di pratiche fatto di blocchi stradali, picchetti, black block, manifestazioni selvagge ecc.

Un testo, apparso su Lundi Matin5 , individua tre momenti della mobilitazione: il primo (quando la riforma era ancora soggetta a dibattito) ruotava intorno alla costruzione di una mobilitazione unitaria da parte del sindacato, il secondo intorno alla combinazione tra sciopero e blocchi/picchetti in alcuni settori chiave dell’economia, infine, in seguito all’approvazione forzata della riforma, si è assistito al proliferare delle rivolte serali e di blocchi dei flussi, autonomi e diffusi. È in questo terzo momento che si è giocata la possibilità della mobilitazione di uscire da uno schema reattivo rispetto alle mosse del governo, uscire dalle secche della democrazia repubblicana e dalle forme di organizzazione mediate del sindacato o dei partiti, per sperimentare configurazioni inedite.

Di fronte all’inefficacia storica ed evidente dello sciopero sindacale (anche quando “generale”), all’interno della grammatica del movimento assume una maggior centralità ed efficacia la pratica del blocco, che va dalle arterie stradali a luoghi strategici dello sciopero come i depositi di autobus, le raffinerie e i centri di smistamento rifiuti. Il blocco permette di decentralizzare il conflitto e uscire da una dinamica di confronto diretto e militare con la polizia, specialmente quando questi sorgono in maniera imprevista in vari punti della città, paralizzandola. Questa forma ha aperto un ritmo diverso per un movimento che all’inizio era stato completamente controllato dall’assemblea intersindacale. Dall’altra parte i sindacati non erano del tutto marginali, perché hanno mantenuto il controllo sui tempi della contestazione, in quanto l’autonomia dei blocchi e delle manifestazioni selvagge è stata largamente schiacciata all’interno delle giornate indette dai sindacati, tanto che dopo il 1 Maggio i sindacati hanno interrotto il movimento, senza più chiamare giornate di sciopero.

Spazio e luogo

A quanto si legge dai testi apparsi su LundiMatin l’organizzazione dei blocchi e delle azioni è stata particolarmente avanzata laddove la mobilitazione si è data delle forme di coordinamento in rapporto diretto con le basi sindacali più attive. Le operazioni “città morta/ville morte” a Rennes, Nantes e Lione mostrano l’emergere di una traiettoria autonoma nella mobilitazione, capace di comporre una soggettività che deborda le mediazioni sindacali e la cristallizzazione di un antagonismo allo Stato.
O meglio, la sfida di questa ipotetica nuova soggettività sarebbe proprio quella di reinventare continuamente le capacità di coordinamento e intervento della mobilitazione, come nel caso dei blocchi, evitando un irrigidimento delle tattiche e della strategia, che porterebbe a perdere ogni vantaggio tattico, rendendosi facilmente prevedibile dalla polizia.

Per vincere questa sfida è necessario che le lotte sviluppino una base territoriale – che sia a livello di quartiere, di città o addirittura di regione – che consenta loro di interrompere i flussi circolatori, impedendo alla polizia di riprendere il controllo sulle infrastrutture e sui flussi che le attraversano. Affinché il coordinamento raggiunga un certo livello di efficacia, la dimensione territoriale è essenziale.

Nel movimento contro la riforma delle pensioni, ad esempio, sebbene la formazione di spazi conflittuali sia stata limitata alle occupazioni studentesche e ai blocchi, anche al di là della loro funzione puramente operativa, questi possono diventare luoghi di incontro capaci di riunire una serie di soggettività diverse, contribuendo alla costruzione di un “noi” etico e pratico. Ad oggi, l’esempio più avanzato di questa combinazione simultanea di forme conflittuali in grado di interrompere l’infrastruttura circolatoria e dell’impulso di placemaking che crea un “fuori”, è stato quello delle occupazioni delle rotonde durante i primi tre mesi della rivolta dei Gilet jaunes.

La creazione di luoghi fa parte della grammatica di tutti i movimenti recenti, dal movimento delle piazze, fino alla rivolta di George Floyd Sulla scia del movimento americano Occupy alcuni compagni hanno invocato la categoria di “comune insurrezionale” nel tentativo di teorizzare come questi luoghi aperti dalla lotta sperimentino forme di riproduzione sociale al di fuori dei circuiti del capitale.6 Similmente nel 2020 si è parlato di “Zone Autonome”, da Seattle fino ad Atlanta, si sono sperimentati tentativi di dare vita a territori liberi dalla presenza di polizia.7 Non senza numerose difficoltà, in quanto queste esperienze mostrano anche in maniera evidente che il controllo e la funzione di “policing” non è esclusiva assoluta delle forze dell’ordine, spesso il ruolo controinsurrezionale viene assunto da componenti del movimento.

Che si guardi ai nuovi movimenti da una prospettiva marxista o etica ed epistemologica, la creazione di luoghi in secessione e in opposizione al controllo governamentale o capitalistico del territorio costituisce l’elemento attraverso il quale le diverse soggettività costruiscono il terreno comune della loro esistenza e la possibilità di durata. Il declino di una politica programmatica o costruita intorno a rappresentazioni o identità sociali in cerca di integrazione o rappresentazione nello spazio politico classico lascia spazio alla costruzione di nuove territorialità non sovrane. La fine di una politica rivendicativa apre la strada ad una nuova geografia politica in cui la posta in gioco diventa la creazione di nuove forme-di-vita, luoghi che prima che fisici sono etici, un tessuto di relazioni mobili e inoggettivabili.

Il punto non è che i luoghi fisici siano diventati la posta in gioco principale dei movimenti contemporanei, ma semplicemente che la loro infrastruttura materiale e strategica dipende da essi. Se intendiamo il termine “zona autonoma” per indicare un’area che non dipende più dalla regione circostante, una cosa del genere non esiste proprio. Non si tratta nemmeno di implementare un modello amministrativo formale, come se l'”autogestione” o la pratica del dono dovessero caratterizzare automaticamente l’orientamento anticapitalista. Tanto meno si tratta di sovranità e indipendenza, di sostituire la sovranità dello Stato con un’altra sovranità simile a quella dello Stato, soprattutto considerando le altre forme altrettanto terribili che spesso si possono generare in questo tipo di tentativi.8 In verità, l'”autonomia” come questione strategica non riguarda l’autoamministrazione o l’autosovranità, ma è una tensione o un problema che emerge all’interno dello spazio dinamico di un conflitto in corso: una lotta rimane “autonoma” finché mantiene la sua capacità di rigenerare continuamente forme offensive e antagoniste.9 Da questo punto di vista, gli spazi in cui possiamo sviluppare forme alternative di organizzazione e riproduzione sociale sono ovviamente utili, ma il loro emergere non deve essere inteso come il punto finale o il culmine della lotta.

Lotte territoriali

La rivolta di George Floyd nel 2020 o i gilet gialli nel 2018/19, sono momenti di mobilitazione massiva, insurrezioni che segnano momenti di rottura che non sono il frutto del “transcrescere” di lotte sociali o del raggiungimento di un qualche programma. Su un piano soggettivo producono delle rotture biografiche che spesso rendono ancora più insopportabile un ritorno ad una quotidianità priva di quei momenti intensi di lotta. Per chi è mosso da una tensione etica rivoluzionaria diventa difficile pensare di dover aspettare la prossima rivolta imprevista, per saltarvici dentro. Per questo si pone una questione organizzativa, di come apprendere dalle insurrezioni e allo stesso tempo attraversare i momenti di reflusso.10

Hugh Farrel individua nelle lotte territoriali una forma che il conflitto può assumere in fasi di grande reflusso e generale reazione, condividendo alcune caratteristiche simili alle sollevazioni contemporanee.11 Guardando telescopicamente al decennio passato emerge come in diverse parti del mondo occidentale le lotte territoriali riescano ad agglutinare soggettività tra loro differenti intorno ad un’istanza di difesa di un territorio, insieme ad un rinnovato slancio di abitarlo e di costituirlo nuovamente: dalla lotta NO TAV in Val di Susa, alla ZAD di Notre Dame de Landes, come la lotta NO DAPL in NorthDakota (USA), per arrivare a lotte più recenti come quella contro i mega-bacini a Sainte-Soline e o Cop City nella periferia Sud della città di Atlanta.

Le lotte territoriali danno vita ad un processo compositivo sulla base di un territorio, che costituisce quindi il vettore su cui si articola la lotta. L’elemento territoriale è sia fisico, dotato quindi di luoghi specifici che si vorrebbero difendere, che affettivo; quindi, all’interno di un processo di continua ridefinizione e trasformazione che viene generato da coloro che lo abitano.12 Il caso esemplare recente è il movimento “Soulevements de la Terre” (SLDT), che sta provando ad articolare una composizione tra soggettività differenti e per certi aspetti simile – poiché ugualmente intergenerazionale – a quella contro la riforma delle pensioni: nella strategia di SDLT viene intenzionalmente ricercata una composizione tra agricoltori, abitanti “rurali”, “zadisti” e “generazione clima” per sostenere delle lotte territoriali sparse in tutta la Francia. Il caso in cui questa operazione pare al momento ha raggiunto la maggior intensità è quella della lotta contro i mega-bacini, a Sainte-Soline.
Si tratta di qualcosa di molto simile alla lotta che ad Atlanta si è riunita in torno allo slogan “Stop Cop City / Defend the Atlanta Forest” (DTAF). Dove, non trattandosi di un contesto “rurale”, ma di una foresta all’interno di una città (che è a sua volta all’interno di una foresta), la composizione si articola principalmente sulle sottoculture giovanili locali, estremamente forti nella città (tanto che la lotta è spesso scandita da un festival musicale) a cui si aggiungono elementi radicali dal resto del paese, oscillanti tra l’anarchismo e l’ambientalismo radicale. A queste, infine, si aggiungono alcune realtà politiche locali come i community builder13, gruppi contro la polizia (che provano a dare continuità politica alle rivolte degli anni Dieci e del 2020) e alcune comunità religiose.

Sono lotte che si allontanano molto dalla grammatica delle pratiche dei movimenti per il clima che tendono a favorire soprattutto marce pacifiche e azioni simboliche volte a coltivare la “consapevolezza” sulla crisi climatica; ma anche da un orizzonte strategico che si limita ad avanzare una serie di richieste alle varie istituzioni, rinunciando alla possibilità di originare forme-di-vita situazionali, ripiegando pericolosamente nell’invocare una sorta di leviatano climatico: un orrore sovrano che trova il suo più noto promotore in quella sorta di pseudo-leninista verde di Andreas Malm.
Va sottolineato però che la strategia della composizione nei casi di Atlanta o SLDT è esplicitamente e intenzionalmente adottata (nel primo caso solo da alcune delle componenti), mentre nei «non movimenti», come i gilet gialli o l’attuale protesta contro la riforma delle pensioni, è un processo che si produce indipendentemente dalle intenzioni delle singole componenti che ne fanno parte: la “composizione” di Soulevements de la Terre e Defend the Atlanta Forest è avanzata da alcuni gruppi politici pre-esistenti che provano a promuovere questo processo compositivo che è a tratti etico e a tratti assume le sembianze di un’alleanza o convergenza tra gruppi sociali e politici che mantengono le loro differenze durante la lotta stessa. Sebbene con una particolare attenzione a comporre il proprio agire con quello di altri gruppi, con il fondamentale obiettivo di far crescere la lotta stessa, piuttosto che indebolirla attraverso l’affermazione di elementi e riflessi identitari.
Le lotte territoriali, a differenza delle sollevazioni, non sono semplici urgenze etiche di rifiuto, ma possono essere collocate in una soglia che sta tra l’etico e il politico, per questo possono facilmente ricadere in dinamiche politiche classiche, di convergenza, oltre che far scadere il terreno della lotta su un piano meramente pubblico e mediatico.14

SLDT, DTAF e molte altre lotte territoriali (presenti e passate) sollevano nella pratica questioni organizzative e strategiche interessanti per chiunque si interroghi su come evitare che una lotta esaurisca rapidamente la sua spinta. In modo particolare i “militanti” coinvolti si scontrano continuamente con problemi organizzativi rilevanti per chi da una parte vuole evitare un avanguardismo in salsa leninista, dall’altra non si ritrova in un certo bordighismo osservatore, che interpreta i movimenti con guardo esterno; insomma si tratta di riconoscersi parte integrante del processo spontaneo in cui una strategia di lotta si sviluppa e quindi di pensarsi capaci di effettuare degli interventi e modificarne i processi senza per questo ingabbiarli, pretenderne di controllarne le traiettorie riducendone le possibilità generative.
Una realtà organizzativa, all’interno di una lotta o di una sommossa può intervenirvi per alimentarne il portato conflittuale, allargarne gli orizzonti tattici, alimentarne le capacità creative. Come è stato evidenziato in questo testo sul cortège de tete15, alcune soggettività, anche numericamente ridotte, possono introdurre una tattica che è capace di intervenire e modificare anche il piano strategico di una lotta, spesso destabilizzandolo, evitando al contempo che si possa cristallizzare di fronte ad un impasse.
In qualche modo ciò è quanto viene articolato nel testo meme senza fine di Adrian Wolhenben16: alcuni gruppi posso intervenire in un movimento sociale facendolo uscire dalle sue condizioni interne, allargandolo a nuovi orizzonti di trasformazione radicale, se riescono a introdurvi dei gesti capaci di riprodursi e diffondersi al di là delle soggettività che li hanno introdotti. Impedire la cristallizzazione delle tattiche, il controllo esclusivo sulle pratiche, la centralizzazione di una strategia, è un prerequisito per far uscire qualsiasi lotta o gruppo militante da un’impasse che può essere riformista o martirizzante.

Impasse

L’impasse di fronte a cui si trovano, questo tipo di lotte, in particolare di fronte a cui si è trovata dalla lotta contro i mega bacini a Sainte-Soline, al movimento NoTav in Val di Susa come in Val Maurienne, sembra essere molto simile a quella della mobilitazione delle pensioni: il cristallizzarsi di un antagonismo allo Stato che porta la lotta ad una sostanziale dialettica con esso, con il rischio di due situazioni di impasse. La prima è un recupero, depotenziamento o sconfitta del conflitto, includendo la possibilità di ottenere qualche concessione o parziale vittoria, come nel caso della ZAD17; la seconda è invece un conflitto simmetrico, che può quindi tradursi, nell’immediato, in uno scontro diretto altamente militarizzato.

Volgendo lo sguardo verso noi stessi, verso la nostra soggettività, si affaccia il rischio di irrigidire la nostra partecipazione al movimento in una forma di militanza alienata che produce una separazione tra noi e quello che Bordiga chiamerebbe il partito storico18, o che possiamo anche chiamare il movimento reale. Questa separazione, che potrebbe essere quella bolscevica, che vede un’avanguardia alla testa di un movimento e lo organizza, ha rappresentato una formula tattica e strategica rilevante nel Novecento e trova una riproposizione in quelle analisi strategiche dei movimenti direzionata alla costruzione di contropoteri o controsoggetti, non realizzando che il potere a cui si dovrebbe contrapporre non ha alcuna consistenza specifica ed è “anarchico”19.

Inoltre, queste analisi si scontrano con un dato di fatto che tutte le sollevazioni della nostra epoca mostrano, l’assenza di un Soggetto politico di massa capace di centralizzare il conflitto (sempre che sia mai esistito), a cui subentra la frammentazione delle soggettività coinvolte, spesso mosse da una serie di tensioni etiche che non trovano alcun terreno comune ideologico o discorsivo e programmatico. Insomma, il noi rivoluzionario che da Hong Kong, ai Gilet Gialli, fino al Cile si compone e scompone è un noi esperienziale ed etico, non possiede linguaggio. Proprio per questo non può essere soggetto a recuperi di sorta da parte delle forme classiche della politica. Chiunque si interroghi su come può il conflitto essere rivoluzionario nella nostra epoca deve confrontarsi con questa realtà, abbandonando la nostalgia per le stagioni passate (anche perché spesso mistificate) in cui un soggetto di massa sarebbe stato motore delle lotte. Viviamo in un’epoca in cui la Classe non trova unità sociologica o politica, quanto piuttosto etica nel momento delle sollevazioni. La Classe è attraversata da una serie di vettori che la rendono socialmente frammentata, di cui sicuramente le “identity politics” costituiscono una forma piuttosto sintomatica.

Per questa ragione piuttosto che rievocare artificiosamente nuove unità sociali o politiche, ogni lotta rivoluzionaria deve fare i conti con questa frammentazione e allo stesso tempo con la natura anarchica del potere. Differentemente da quella costituente o di qualunque fantasia di contropotere, l’opzione destituente è l’unica capace di figurare una strategia rivoluzionaria in una realtà in cui le forme di rappresentazione politica sono collassate, si mantengono come poco più che simulacri20. Per questo un antagonismo interamente speculare a questi simulacri, non può che girare a vuoto.

Il capitale, nella sua autonomizzazione e nel suo farsi dominio reale, non si articola secondo una serie di principi astratti o egemonici. Non possiede altro principio regolativo al di fuori della sua sopravvivenza che avviene attraverso una forma di repressione violenta laddove questa si renda necessaria. Per questa ragione non ha alcun problema a mostrarsi terribilmente tragico nello schiacciare qualsiasi minaccia esso sia in grado di riconoscere. Il rapporto dialettico, caro a gran parte del marxismo, tra capitale e lavoro, è continuamente rotto dal capitale stesso, pensare di ricostituirlo in qualche forma di lotta, rievocando una nostalgia di qualche orizzonte democratico o riformista perduto, è perdente, come dimostrano le impasse in cui si sono scontrati i movimenti alter-globalizzazione e tutta la proposta post-operaista di Negri e Hardt. Come non vedere lo spettro di una guerra civile facilmente combattuta e vinta nella repressione poliziesca di Seattle 1999 o Genova 2001? Mentre le tute bianche combattevano dei simulacri su di un piano puramente simbolico, la controparte schiacciava nella violenza e nella paura il movimento.

Similmente si potrebbe leggere in questo modo la violenza omicida espressa dalla polizia contro i manifestanti a Sainte-Soline il 25 marzo. Ogni volta che una forza antagonista alza pubblicamente l’asticella del conflitto e lo direziona su un piano altamente simbolico, si rende chiara e leggibile dalla repressione, la quale non ha particolari difficoltà ad organizzarsi e mobilitare ogni mezzo necessario capace di schiacciarne le forze. La questione della violenza allora deve smarcarsi da due ingenuità speculari, da una parte il vittimismo non-violento che crede di poter scaturire un rapporto di forze intervenendo su un piano discorsivo o culturale, che quindi enfatizzerà una denuncia della violenza statale; dall’altro, però, una riappropriazione della violenza che prova a originare un rapporto di forze simmetrico con lo Stato rischia di incanalare le potenzialità generative e inventive del conflitto in un confronto tra due fronti consolidati, in cui uno è militarmente dominante.

Destituzione

La destituzione, differentemente da qualsiasi scontro simmetrico e dialettico che vorrebbe contrapporsi alle forme di governo (magari per proporne di alternative), è una forma di cospirazione che punta a disattivare i dispositivi di governo della vita: quelli del territorio come quelli governamentali o soggettivi, che generano le condotte della soggettività neoliberale. Per questo una soggettività rivoluzionaria (destituente) nell’epoca attuale nega il potere, mentre nega sé stessa, la propria identità o altre forme di soggettivazione.

La destituzione rappresenta una forma invisibile di ribaltamento dell’anarchia del potere, in direzione di una reale anarchia, di una vita che non ha bisogno di legittimazione, che possa essere libero gioco e scambio tra forme-di-vita. Un modo per fare ciò, secondo il Comitato Invisibile, può essere esporre l’anarchia del potere attraverso un agire che mostra la sua assenza di fondamento: ciò non significa denunciarne la violenza per suscitare lo scandalo democratico, ma piuttosto colpirlo in modo che mostri la sua vera natura priva di una qualsiasi legittimità astratta (un contratto sociale, la democrazia, l’uguaglianza, la nazione, l’ordine ecc…). Allo stesso modo un gesto destituente non ha bisogno di legittimità, si esprime intorno ad una verità e realtà sensibile ed evidente che non richiede una significazione discorsiva. Questo tipo di gesti obbliga la polizia a mostrarsi per quello che è: una banda criminale come altre, in lotta per il controllo di un territorio.

Se ad un gesto destituente che costringe il potere a materializzarsi “a scendere sulla terra” e mostrarsi nella sua materialità, si fa seguire un processo costituente (di una strategia e di un soggetto) si porterà la natura del conflitto a schiantarsi in una guerra tragica, che si giocherà su uno scontro simmetrico, in cui le forze controrivoluzionarie (la polizia) rivolgeranno tutta la loro schiacciante forza militare nel vincere la battaglia.21 È ciò che avviene ad ogni movimento che, entrando in un’impasse di antagonismo allo Stato, o declina, oppure trova un nucleo motivato a rilanciare continuamente l’asticella dello scontro fino a renderlo tragicamente militare, chiudendo ogni spiraglio rivoluzionario, fossilizzando la guerra civile in due fronti consolidai, con un avversario che oltre al vantaggio militare ha spesso anche il privilegio di scegliere su quale terreno si debba consumare la battaglia.

Vediamo queste verità in mostra nell’attuale ciclo di lotte in Francia: da un lato, la capacità innovativa dell’irruzione di avviare una nuova soggettività compositiva, una capacità che, nella misura in cui riesce a sfuggire a una logica dialettica con lo Stato e a reinventarsi continuamente in termini pratici e ritmici (cioè, nella scelta temporale delle azioni), deve essere considerata essa stessa destituente. Allo stesso modo, se Soulevements de la Terre ha dimostrato una grande capacità di mettere in scacco e debordare la polizia, ciò è dovuto in gran parte alla forza innovativa che la nuova composizione è stata in grado di produrre.

Questa capacità di produrre nuove forme impreviste sembrerebbe essersi ridotta in occasione del 25 marzo, in cui la composizione si è piuttosto consolidata e la strategia adottata è stata simile a quella dell’appuntamento precedente. Il risultato è stato una serie di scelte ormai prevedibili da parte della polizia, che ha optato per attendere l’arrivo della manifestazione e avviare una dinamica di “assedio” che le permettesse di sferrare un attacco brutale alla folla. Le conseguenti analisi degli errori tattici in questo caso sono certamente valide,22 ma per poter uscire dall’impasse del 25 marzo sarà necessaria una riformulazione dell’ipotesi strategica generale che ha portato all’automatizzarsi e ad un irrigidimento della capacità organizzativa, impedendo al movimento di improvvisare e spiazzare la controparte come ad ottobre.

Un’ipotesi potrebbe essere che puntare ad un allargamento del processo compositivo: a questo proposito gli sforzi di estendere il bacino della lotta ad un piano internazionale ha portato, da una parte, ad alzare l’asticella dell’aspettativa dello scontro (occasione che la polizia non ha mancato di cogliere), dall’altra, a rendere difficile una riformulazione dell’organizzazione tattica della manifestazione. Guardando al passato, raramente gli appuntamenti internazionali, gli allargamenti quantitativi di una lotta, sono riusciti a determinarne un salto di qualità, molto spesso hanno rappresentato il naufragio e il declino di molte realtà e lotte. Allora viene da ipotizzare che un potenziamento di una lotta nasce piuttosto dall’intensificazione dei rapporti compositivi, o forse da una loro scomposizione e ricomposizione alternativa, tale da produrre nuove forme impreviste, improvvisate.

Fino a marzo 2023, il movimento ad Atlanta è stato in grado di mantenere l’iniziativa attraverso una serie di mosse che hanno colto quasi sempre alla sprovvista la polizia. Questo sicuramente perché le dinamiche interne del movimento sono estremamente opache, specialmente alla polizia, che ancora brancola nel buio alla ricerca di leadership radicali responsabili delle azioni più distruttive. Il vantaggio ha portato il movimento in occasione della quarta “week of action” ad alzare l’asticella ad un punto tale da rendere difficile immaginare forme di azione diretta più incisive23, allo stesso tempo la polizia ha reagito attraverso un rastrellamento casuale di persone a cui è stata data la pesante accusa di terrorismo. Quando a quasi un mese di distanza la città di Atlanta ha deciso di accelerare il progetto, iniziando il taglio di una parte della foresta e militarizzando i dintorni, il movimento ha preferito non cadere nella trappola di reagire a questa offensiva dell’amministrazione cittadina (che avrebbe significato muovere un assedio al cantiere), ma allo stesso tempo i tentativi di attaccare altrove decentralizzando il conflitto non sembrano ancora aver trovato forme efficaci, nonostante la buona intuizione (numerose azioni di “sanzionamento” delle realtà coinvolte nel progetto CopCity si sono date in tutti gli Stati Uniti). Al momento l’unica strategia disponibile è quella di spingere per far esplodere le contraddizioni interne al governo della città, a guida democratica, attraverso una pressione sempre più forte sul sindaco, sfruttando il largo consenso di cui gode il movimento, il che però porta l’asse della lotta al di fuori delle capacità della lotta stessa. Come riconoscono alcune persone da tempo attive nella mobilitazione, ciò che potrebbe dare nuova linfa alla lotta è il coinvolgimento nel processo compositivo di nuove soggettività, come è timidamente accaduto nel caso degli studenti che hanno occupato alcune sedi delle Università ad Atlanta, oppure attraverso la sperimentazione di forme pratiche che siano in grado di portare ad un salto di qualità da supporto a ingaggio da parte dei “cittadini” ostili al progetto.

Quando un movimento non riesce più a difendersi (o ad attaccare), avendo esaurito le proprie risorse tattiche, rischia di scivolare in dinamiche politiche ostili. La strategia inizia a declinare in forme rappresentative della politica, le scelte tattiche ricadono sempre più in forme performative volte a intervenire a livello pubblico e mediatico. Quello che sta accadendo ad Atlanta, o in Francia (soprattutto quello che è successo recentemente in Val Maurienne), rischia di seguire traiettorie simili a quelle precedentemente osservate nel movimento No-TAV italiano. Nel suo declino una lotta inizia a rifugiarsi nella politica rappresentativa, sia cercando di utilizzare la “democrazia”, sia semplicemente ripiegando su un attivismo spettacolare alla ricerca di copertura mediatica. In questi momenti, la “strategia della composizione” non si apre più su una traiettoria destituente; al contrario, i gruppi ricadono in dinamiche sempre più identitarie, e quelli più politici iniziano a concentrarsi sulla costruzione del consenso e sul rafforzamento della propria posizione nell’opinione pubblica, “capitalizzando” la lotta. La tensione fortemente etico-politica alla base della lotta viene gradualmente sostituita da una dinamica pubblico-politica. Quando la politica diventa pubblica, il movimento si espone alla repressione, perde la capacità di improvvisare e di rimanere imprevedibile.

Una strategia della composizione può “aprire” delle possibilità rivoluzionarie di una lotta se rimane sempre aperta e segue una traiettoria destituente: il che significa, da una parte costruire una traiettoria di fuga dall’interno della dinamica dialettica con il potere, dall’altra sottoporre a continua ricombinazione e rottura le forme che la composizione può generare, infine, a partire dalla lezione dei gilet gialli, attraverso incontri imprevisti al posto di alleanze classiche (come le tipiche forze della “sinistra”). Una ricombinazione può avvenire attraverso l’irruzione di un nuovo protagonismo non del tutto decifrabile, oppure, nel caso in cui l’allargamento a nuove componenti in una lotta si renda difficile, nel cercare nuove configurazioni di incontro e contatto tra le soggettività che lo compongono, ricercare ulteriormente una loro desoggettivazione per evitare che un processo di soggettivazione possa cristallizzarsi. Una composizione destituente parte da gesti radicali, che non richiedono di essere catturati in forme rivendicative, in quanto esprimono una comunicabilità insita a loro stessi, impedendo che l’agire venga catturato nella virtualità performativa dell’attivismo politico. Una composizione dei gesti è sostanzialmente muta e autonoma, non cerca mediazioni o altre forme di dialogo con le forme statuali, ricadendo nel linguaggio politicista e nelle sue categorie di nominazione (doversi giustificare come ecologista, sociale o di una sinistra più o meno “radicale”).

Laddove non si trovino nuove forme o nuove ritmicità, nel caso in cui le capacità di sperimentazione si siano esaurite, allora bisogna riconoscere che essa ha già iniziato il suo declino, ogni tentativo volontaristico di rianimarla può solo tradursi in una forma di militantismo sacrificale, speculare al potere che cerca di combattere, da un punto di vista strategico più ampio una certa volontà sacrificale può portare anche ad una perdita di ciò che nella lotta si è potuto apprendere, le capacità logistiche, organizzative e pratiche che possono costituire un patrimonio fondamentale per una nuova fase del conflitto.

Si può quindi affermare che la possibilità rivoluzionaria di una lotta è quella di poter mantenere e creare continuamente una potenza destituente, in un processo di negazione, autonegazione che si rigenera in una sperimentazione e improvvisazione continua.
La rivoluzione è un’arte alchemica: si tratta di fondere oro, acciaio e sangue, di generare nuove leghe, di combinare nuove strategie, in un’eterogenesi senza fine.

«l’ordine è il loro
perdono e pietà non gli imploro,
io fondo l’acciaio con l’oro,
sapendo chi farne un tesoro»

Lou X – Oro e Acciaio

Come il sale con la neve:
chi scioglie chi?

Dj Gruff

Giugno 2023


1 Temps Critique, La protestation en cours sur les retraites. Du refus à la révolte ? https://tempscritiques.free.fr/spip.php?article530#_ftnref6

2 La traduzione letterale sarebbe “lega”, una fusione di metalli. La scelta del termine è anche legata all’assonanza con un altro termine simile, che è “alliance”, ossia “alleanza”. Si potrebbe quindi pensare a questa “lega” come a qualcosa di più di un’allenza, in cui i vari elementi si compongono insieme, perdendo le loro singolari differenze.

Cito dal testo originale: “Tutto questo, che rende possibile la mescolanza di generazioni, non produce certo una nuova ‘composizione di classe’ sul modello operistico italiano degli anni ’60-’70, non un’alleanza consapevole o intenzionale tra frazioni, ma una ‘lega’ di circostanze e opportunità che tende a superare i soliti particolarismi di età, sesso, ecc.”.

3 Endnotes, Avanti Barbari! In rete https://endnotes.org.uk/posts/endnotes-onward-barbarians in italiano al link https://teatrodioklahoma.net/2021/10/22/avanti-barbari/

4 Si potrebbe anche affermare che i sindacati e i partiti di sinistra hanno, loro malgrado, accettato il diffondersi di queste forme intorno ai loro cortei, dal momento che hanno comunque mantenuto il controllo della strategia generale della mobilitazione oltre che della sua temporalità. Infatti, nel momento in cui l’intensità del movimento sembrava scardinare la cornice costituzionale della mobilitazione, aprendo alla possibilità del conflitto di autonomizzarsi rispetto alla sua ragione rivendicativa, i sindacati hanno smesso di chiamare giornate di sciopero e corteo, portando di fatto all’inesorabile implosione del movimento.

5 Lundimatin, Sortir de l’antagonisme d’état https://lundi.am/Sortir-de-l-antagonisme-d-Etat

6 Joshua Clover nel libro Riot.Scioero.Riot, fa un particolare riferimento alla “Comune di Oakland”. J. Clover, Riot.Sciopero.Riot, Meltemi, 2023

7 Segnalo questi due testi che tracciano in maniera chiara le traiettorie in due esperienze significative durante il 2020 negli Stati Uniti. Ad Atlanta https://illwill.com/at-the-wendys Intervista su CHAZ a Seattle https://itsgoingdown.org/get-in-the-zone/

8 Su queste riflessioni, sul rapporto tra amministrazione e sovranità, sul modo in cui l’esperienza Zapatista riesce uscire da certe secche del pensiero radicale occidentale segnalo questo testo di Jerome Baschet https://illwill.com/zapatista-autonomy in italiano https://www.antudo.info/wp-content/uploads/2020/03/brevi-osservazioni-sull-autonomia-zapatista.pdf

9 Un testo che chiarisce in maniera molto semplice l’uso della categoria di “autonomia” è quello di Adrian Wohlleben, Autonomy in Conflict, in The Reservoir, Vol. 1.

10 Credo che il vuoto che lascia la fine di una sollevazione è più che altro etico ed affettivo; al contrario di altre letture, tendenzialmente nostalgiche del movimento operaio, che preferiscono evidenziare il vuoto politico che queste lasciano, nel senso di un’assenza di un Soggetto rilevante (in particolare si veda quella di Maurizio Lazzarato nel suo libro L’intollerabile presente, l’urgenza della rivoluzione – ed. 2022).

11 Hugh Farrel, Strategia della composizione, IllWill, 2023 – in italiano qui https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-strategia-della-composizione-prima-parte

12 Nelle loro “Tragic Thesis”, il gruppo Decomposition, formula l’ipotesi che le lotte territoriale sarebbero esempi in cui si supera la separazione tra specie, tra umano e non umano, in qualche modo rompendo i processi di umanizzazione e disumanizzazione che sono alla base dei processi di valorizzazione del Capitale. La tesi sembra interessante in quanto, reinterpretandola liberamente, sembra legarsi a quanto in molte di queste lotte viene affermato per lo più come uno slogan, “siamo la valle che si difende” (è uno degli slogan della lotta NoTav), oppure anche il nome stesso “sollevamenti della terra”. Sembrano tutti indicare un luogo, un territorio, più che ad un Soggetto che produce un’agency. Le tesi sono consultabili al link https://decompositions.noblogs.org/post/2023/03/09/tragic-theses/

13 Delle comunità o associazioni di tipo antirazzista.

14 Credo sia fondamentale distinguere il problema della composizione da una strategia di convergenza. Come già scritto nell’introduzione italiana a “Strategia della composizione”, la sfida delle lotte territoriale è quello di evitare una loro centralizzazione, la definizione di un soggetto guida, che si pone alla testa e articola o dirige le varie componenti del movimento. La convergenza presuppone una serie di attori, più o meno radicali, a partire dai quali vengono articolati discorsi, rivendicazioni e nuclei ideologici; la convergenza cattura o fa derivare l’agire a partire da una virtualità, rendendolo la performance tipica dell’attivismo politico. Come argomenterò più avanti una composizione che non si fa convergenza non può partire da identità sociali o politiche presupposte e tantomeno parlare lo stessa lingua della politica classica.

15 La vera storia del Cortège de tete, consultabile qui https://www.infoaut.org/approfondimenti/la-vera-storia-del-cortege-de-tete

16 Consultabile qui https://illwill.com/memes-without-end in italiano https://vitalista.in/2022/03/19/meme-senza-fine/

17 Si veda Considerazioni sulla vittoria, Liaisons nr. 2, consultabile qui https://thenewinquiry.com/blog/victory-and-its-consequences-part-i/

18 Gli studiosi di Bordiga mi perdoneranno questa grossa semplificazione della distinzione tra partito storico e partito formale.

19 Eredito l’espressione dal saggio di Katherine Nelson The Anarchy of Power, in Destituent Power – South Atlantic Quarterly. Nel testo l’autrice evidenzia come la matrice della nostra epoca è sostanzialmente nichilista e anarchica. La crisi della modernità porta con sé il declino di alcune intelaiature metafisiche su cui si sono costruite le forme del potere in epoca moderna. Il nichilismo ha portato allo scoperto queste intelaiature che, una volta svelate, non possono che iniziare un inesorabile declino. Di fronte a questo decadimento il potere non cerca più una serie di giustificazioni universali o totalizzanti, come ha provato a fare nella storia della modernità occidentale, ma si ridefinisci come pura forza, dominio violento.

Come illustra Michele Garau nel suo lavoro su Jacques Camatte https://illwill.com/the-community-of-capital. I diritti e tutte le forme dello Stato liberale entrano in crisi a metà Novecento. Le rappresentazioni di cui il Capitale si è dotato per colmare il vuoto creato dalla distruzione dei legami comunitari che lo precedevano, non rappresentano più un elemento coesivo, in quanto i rapporti economici hanno penetrato le relazioni sociali e il capitale si è fatto immanente alla società stessa, al “sociale”, e non ha più bisogno di produrre una serie di esteriorizzazioni o trascendenze di tipo istituzionale o valoriale che fungano da collante dell’insieme di individui separati. Queste sono le tesi che sviluppa Jacques Camatte a fine anni Sessanta e inizio anni Settanta e che, come nota Michele, sono state riprese dallo stesso Negri nel noto testo Crisi dello Stato piano, del 1972, in cui l’autore definisce le libertà borghesi e lo Stato nazione non più parvenze, ma doppie parvenze. Il potere è ormai casuale e arbitrario, il denaro, fattasi rappresentazione totale, diventa la forma di dominio del mondo sociale e, perdendo ogni ragione sociale di essere, si fonda esclusivamente sulla violenza di classe. Lo Stato allora assume un ruolo che non è più di mediazione, ma di fornire la base politica del dominio al Capitale.

20 Contrariamente a quelli che credono che l’ipotesi destituente rappresenti semplicemente una proposta interpretativa delle rivolte e di quelle forme di sospensione del tempo storico, l’idea di una potenza destituente è stata formulata da Agamben e il Comitato Invisibile nella direzione di tracciare una traiettoria rivoluzionaria che non rimanga incagliata sugli stessi scogli che hanno trasformato le rivoluzioni moderne in controrivoluzioni.

21 Nel saggio The Anarchy of Power in Destituent power-South Atlantic Quarterly – Katherine Nelson nota alcuni limiti della destituzione che credo siano legati alla traduzione di una potenza destituente in un contropotere:
«Una politica che rifiuta qualsiasi pretesa di legittimazione può infatti, come scrive il Comitato Invisibile, costringere il governo ad “abbassarsi al livello degli insorti, che non possono più essere “mostri”, “criminali” o “terroristi”, ma semplicemente nemici”, può “costringere la polizia a non essere altro che una banda e il sistema giudiziario un’associazione criminale”. In questo modo, però, si corre il rischio che la lotta che ne consegue diventi una battaglia “all’ultimo sangue” tra fazioni. In questi casi, una destituzione a cortocircuito diventa la metonimia spezzata di un’esistenza politica significativa, producendo le vittime di un’epoca anarchica. Per essere chiari, una tale identificazione mortale di ciò che si è o di ciò che si è con ciò che si deve fare, con l’essere e la prassi, non è affatto esemplificativa della destituzione, ma è il rischio che, a mio avviso, la politica destituente presenta in modo unico e intrinseco.»

22 Si veda qui il loro comunicato autocritico: https://infoaut.org/crisi-climatica/a-tutti-e-tutte-coloro-che-hanno-marciato-a-sainte-soline

23 Come si può osservare da queste foto, un’intera area di costruzione è stata data alle fiamme. https://twitter.com/illwilleditions/status/1633118200798801923

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